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Youth

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Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo.

Questo è un passaggio estratto dalla Grande Bellezza, e sintetizza in maniera impeccabile il senso di Youth con un solo passaggio ulteriore, in Youth i sentimenti si fanno più espliciti, escono allo scoperto.

In Youth la vera protagonista non è la giovinezza come suggerisce il titolo, ma la morte.
Momento in cui si finisce per dover fare i conti con ciò che si è stati, finiti i clamori e gli entusiasmi giovanili, il corpo inizia a vacillare a cedere ed allora solo allora si inizia a sentire veramente la vita. Inizia il percorso di preparazione alla fine più o meno consapevole.
Ma è anche il momento in cui si esacerbano i propri difetti accentuandosi in maniera sproporzionata.

Il film è frammentario, anti-narrativo, esattamente come un opera pre-socratica, anti-sistematica e volto a gettare la luce con sprazzi illuminanti.

“Il fulmine governa tutte le cose” dice Eraclito, i bagliori del lampo fendono l’oscurità e consentono di vedere per un istante come stanno veramente le cose.

Sorrentino scaglia una serie di lampi mostrandoci pieghe dell’animo umano più o meno celate.
Suggestioni suggellate da una fotografia di Bigazzi che come sempre è maniacale ma meno barocca del solito.
Una cosa però mi ha sorpreso molto, al di là della contrapposizione apatia (Micheal Caine) desiderio assoluto di emozioni (Harvey Keitel) giocano sullo sfondo (mica poi tanto sfondo) i sentimenti espressi e spiattellati come l’astio di Rachel Weisz nei confronti del padre, Hitler zoppo e con la tosse stizzosa, una maschera della sconfitta, il riferimento a Novalis.

Frammenti, buoni come intuizioni per chi ricerca il senso delle cose.

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film

still life

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Still life ha una narrazione lieve, fatta di piccoli dettagli apparentemente insignificanti che assumono agli occhi del protagonista un significato intenso. La vita dell’impiegato comunale interpretato da uno stupefacente Eddie Marsan è fatta di gesti monotoni e rassicuranti, ordine maniacale, solitudine ed una vita apparentemente insignificante. Si perchè il nostro impiegato comunale ha preferito occuparsi dei morti, più che dei vivi percorrendo un’esistenza asciutta, un lungo collezionare ricordi di vite non proprie. Il suo lavoro è infatti rintracciare i parenti dei defunti che hanno vissuto ai margini della società, disadattati, alcolisti, tossici che per ragioni diverse sono morti da soli o al massimo in compagnia del proprio gatto.
Certamente si percepisce un eco beckettiano ed a tratti non si può non pensare al Sig. Josè di Tutti i nomi di Saramago, ma il filo conduttore non è semplicemente la monotonia dell’attività impiegatizia, bensì il tentativo di dare un senso alla propria vita, desertica ed ammantata da un vuoto assoluto.
La questione quindi diviene non tanto quanto tempo si viva, ma cosa si è fatto del proprio tempo, e soprattutto quanto si è sentito la vita.

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La vita di Adele

Questo film ha un grande merito, l’aver esaltato la corporeità come dimensione autentica dell’essere a tal punto che il film si sarebbe potuto chiamare tranquillamente Il corpo di Adele.
Si perchè in realtà Adele vive mediante il proprio corpo più che con i propri sentimenti ed emozioni.
Mangia in continuazione e in maniera vorace, intensa ed istintuale.

Vive la propria corporeità come liberazione del proprio modo di essere, cerca la sua strada nel mondo proprio attraverso il corpo. Il suo amore ha consistenza fisica prima di ogni altra cosa, il suo corpo galleggia nell’acqua consentendole di stare a galla, quando tutto sembra sprofondare nell’abisso.
I suoi sentimenti sono ingarbugliati, incerti, intensi e certamente complicati, ma il suo corpo procede in maniera quasi separata, come se non fosse semplicemente espressivo di scenari profondi, ma fosse capace di dischiudere una verità intima irrinunciabile.

Infine nel film non ci sono cellulari, nè sms nè facebook, come anche qui forse a dimostrare la necessità di un rapporto diretto, fisico, non mediato dalla tecnologia.

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emotional landscapes, film

La grande bellezza

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Jep Gambardella fa il giornalista ed ha scritto un solo romanzo che alcuni decenni prima ebbe un certo successo.
Dopo quel romanzo il nulla, o meglio feste, divertimento sfrenato e tanta bellezza.
L’esistenza oscilla tra bellezza estrema e miseria estrema senza soluzione di continuità.
I presupposti ci sono tutti, un Tony Servillo semplicemente geniale, corrosivo, nichilista come può essere solo colui che ha percorso la vita nella sua interezza, divorandola.

Eppure la bellezza non basta.
Jep è tormentato dai ricordi, dalle donne che ha amato e che sono oramai lontane. La purezza del primo incontro con una donna. La monotonia di una esistenza sempre uguale che paradossalmente è spesa nel tentativo di combattera la monotonia diventando però essa stessa terribilmente monotona e vacua.

Jep è corroso dalle sue scelte passate, è consapevole, ma non accetta fino in fondo. Oscilla.
L’idea della morte sembra essere il limite con cui si rende conto di dover fare i conti, come risvegliandosi da un lungo sonno.

Esattamente come Antonius Block dinanzi alla morte si pone domande sul senso della propria vita, per un attimo sembra quasi avere la stessa sete di trascendenza, ma si rende conto che quella via non è adatta a lui. E’ l’aldiqua’ la sua dimensione al di fuori di qualsiasi sovraterrena speranza.

La bellezza però ripeto non basta.

Non sono degne di nota le visioni oniriche di facile matrice felliniana, ma è invece leggibile un certo parallelismo con il Bruno Cortona di Risi, la differenza sostanziale però sta nel fatto che Cortona è molto meno consapevole e non è capace di una via di mezzo.
Jep invece sfiora le questioni, ma non le afferra nella loro interezza, insomma a tratti sembra quasi pentito dell’esistenza che ha condotto.

Peccato perchè il film poteva essere, se solo fosse stato meno pretenzioso e meno desideroso di toccare gli universali dell’animo umano, molto più incisivo e sostanzioso.

Questa volta la fotografia di Bigazzi finisce per essere sovrastruttura eccessiva, quasi barocca.

Taccio di un Carlo Verdone che è solo uno sbiadito Leopoldo Trieste di vitelloniana memoria.

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Lei lo conosce il paradosso di Epimenide?

viva_la_liberta

Un professore probabilmente di filosofia, da poco uscito dal manicomio riesce ad accendere la speranza negli italiani. Esercizio di un capovolgimento meraviglioso in cui la follia, non solo si dimostra la via verso la sapienza, ma recupero autentico di un messaggio smarrito.

Io lo conosco il paradosso di Epimenide, meglio conosciuto come il paradosso del “mentitore” ed al di là di quello che può sembrare ovvero un semplice gioco di parole, è esso stesso un disvelamento della fragilità della logica umana. Che cosa è la follia se non un modo diverso di agire, spesso distante dalla logica condivisa?
Possiamo per questo derubricare a folle tutto ciò che ci sembra illogico?
Eppure la follia nel film Viva la libertà è passione, recupero di una dimensione autentica, osservarzione della propria coscienza e tentativo di lasciarla essere.

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